“La famiglia arcobaleno – si sente talvolta – non è naturale”: lo fosse, consentirebbe la riproduzione della specie. Riproduzione che, viceversa, è permessa dall’unione di individui di sesso opposto sancita nella famiglia naturale: cioè, l’unica forma che una famiglia può naturalmente assumere. La naturalezza della famiglia, così concepita, si riassumerebbe dunque nella fattibilità dell’atto riproduttivo. Qualunque relazione si collocasse all’esterno di un simile confine ricadrebbe all’esterno della definizione standard di famiglia. Se parliamo di riproduzione, come mero fatto biologico, non sussistono dubbi riguardo a cosa serva per perpetuare il miracolo della vita. Tuttavia, se ci riferiamo alla famiglia, stiamo abbandonando la biologia per entrare nel terreno della cultura.
Il concetto stesso di famiglia costituisce qualcosa di non naturale: frutto, com’è, di una costruzione socio-culturale contingente, variabile nello spazio e nel tempo. In natura non esiste la ‘famiglia’ come siamo soliti concepirla: questo perché la nostra specie ha elaborato un sistema sociale estremamente complesso, imperniato sulla famiglia quale nucleo fondante (ovvero quale istituzione sociale fondamentale). La famiglia è una particolare forma di aggregazione di individui, che assolve specifiche funzioni sociali (ne assolvesse delle altre, avrebbe un altro nome: squadra, concilio, direttivo…). Una è certo quella di garantire la riproduzione del gruppo; ma non è sufficiente né necessaria per la sua definizione: se l’istituzione familiare esistesse esclusivamente in funzione dalla filiazione, allora solo le famiglie prolifiche potrebbero definirsi tali. Al contrario, occorre difendere una concezione di famiglia il cui carattere fondamentale sia il rapporto che ne lega i membri: una qualunque coppia, se affiatata, è famiglia – anche in assenza di prole.
L’istituzione familiare ha tradizionalmente assolto la funzione di rispecchiare, riaffermare e reiterare le strutture di potere su cui si fonda la società: ad esempio, nella famiglia patriarcale il potere appartiene al capofamiglia poiché questa dinamica rispecchia quella di un meccanismo egemonico in cui il potere è in mano a un numero ristretto di individui maschi. In società matriarcali, il discorso s’inverte. Potremmo in effetti spingerci a sostenere che è proprio la forma del potere a determinare la forma della società in generale e della famiglia di conseguenza. Difatti, dal livello di magmatismo sociale deriva parallelamente un livello analogo (perlomeno in via tendenziale) di dinamismo dell’istituzione familiare: sicché la deprecata ‘fluidità’ delle famiglie contemporanee riflette la fluidità strutturale di un tessuto sociale atomizzato, caratteristica distintiva di un tempo in cui le stesse élite di potere sono sempre più leggere, veloci ed extraterritoriali. Da quella patriarcale a quella nucleare, da quella monogama a quella poligama, da quella eterosessuale a quella omosessuale, dunque, la definizione di famiglia cambia proprio perché il termine ‘famiglia’ non reca con sé un contenuto concettuale fisso ma appunto mobile, magmatico, non essendo altro che una forma culturalmente variabile.
Questo ci porta a interrogarci sulla relazione di significazione tra il significante (il termine ‘famiglia’) e il significato che a questo s’intende attribuire tramite un’operazione che, vale la pena sottolinearlo, rimane arbitraria. Interrogarsi su questa relazione è la chiave di volta per capire in quale mondo di senso all’interno del quale vogliamo muoverci e, di conseguenza, agire. Definiamo un mondo di senso come l’insieme dei simboli, tanto linguistici quanto concettuali, che ci fornisce le coordinate entro cui interpretare il reale; naturalmente, non si possono dare mondi di senso senza ricorrere al linguaggio. Il linguaggio è un sistema iper-complesso per mezzo del quale gli elementi minimi della comunicazione (come i segni, le lettere) interagiscono tra loro, dando forma (creando cioè un significante) a una varietà infinita di contenuti (cioè i significati). Senza una forma precisa (una certa combinazione di segni), nessun contenuto può esprimersi. I sistemi linguistici assolvono, naturalmente, una fondamentale funzione comunicativa: forme di interazione complessa tra individui sono possibili solo sulla base di un qualche sistema linguistico condiviso (finanche parzialmente) dagli interlocutori. Di qui i proverbiali problemi di ‘incomunicabilità’, situazioni in cui gli sforzi d’interazione sono vanificati dall’assenza di un linguaggio condiviso: è il caos della torre di Babele. Di qui, soprattutto, la necessaria univocità della relazione di significazione: per una comunicazione efficace, è necessario che gli interlocutori attribuiscano il medesimo significato (o insieme di significati) ad un dato significante.
Si potrebbe superficialmente concludere che il linguaggio ci serve per leggere il mondo (e successivamente, eventualmente, comunicarlo). Tuttavia, una simile conclusione non tiene adeguatamente conto delle potenzialità genetiche ed emancipatrici intrinseche nel linguaggio. Prima ancora che per leggerlo, infatti, il linguaggio ci è indispensabile per costruire il mondo. Non il mondo materiale, è chiaro – quello esiste anche senza segni che lo descrivano; bensì quei mondi di senso entro i quali dirigiamo la nostra esistenza (psico-emotiva, etica, morale). Possiamo immaginare il linguaggio come il materiale con cui assembliamo (e de-assembliamo, modifichiamo, rivoltiamo) questi mondi, o universi, o dimensioni. In questo senso il linguaggio ha una potenzialità genetica: perché esso solo ci fornisce la forma all’interno della quale ‘confezionare’ dei contenuti, che rimarrebbero altrimenti inesprimibili se non addirittura inconcepibili. Senza una forma determinata, certa, precisa, i contenuti non possono essere afferrati con sicurezza: è l’indeterminatezza, nemica giurata della conoscenza. Detta alternativamente, è tramite la costruzione continua di significanti che popoliamo il nostro mondo di senso con significati ulteriori. Dal canto suo, la potenzialità emancipatrice ha direttamente a che fare con il valore che viene socialmente attribuito ad ogni significato. Ecco allora che l’evoluzione del linguaggio ci ha storicamente permesso di emanciparci nella direzione di una sempre maggiore complessità: ed è una grande conquista, dal momento che un linguaggio più evoluto consente operazioni, azioni e interazioni più approfondite e, appunto, significative (basti pensare all’evoluzione del linguaggio informatico).
Cosa lega dunque il tema del linguaggio al tema della famiglia? La risposta è ovvia: se con il linguaggio costruiamo il nostro mondo, sostanziandolo di senso, ne deriva che ritenere alcune famiglie più naturali ci permette di accettare alcune famiglie naturalmente, mentre altre dovranno battersi strenuamente anche solo per accedere all’esistenza ontologica. Si varca, qui, la soglia del regno dei diritti: se nel mio mondo il significante ‘famiglia’ designa solo un determinato insieme di individui con determinate caratteristiche e capaci di assolvere una determinata funzione (la filiazione), ne consegue che un diverso insieme di individui con caratteristiche diverse (condizioni che non consentono di generare prole) non può fregiarsi del medesimo titolo (non può cioè dirsi famiglia). Il che, a sua volta, implica che i suoi membri non potranno godere dei diritti accordati naturalmente (cioè per definizione) alla ‘famiglia’ così (socialmente) intesa.
Ecco perché quella linguistica è una battaglia fondamentale, una battaglia di civiltà: perché il linguaggio deve essere mezzo emancipatorio in grado di sollevare, allargare, includere – non di abbassare, restringere, escludere. Ecco perché, ancora, quella linguistica è una battaglia di libertà: perché tramite il linguaggio possiamo costruire un mondo che sia giusto, equo, complesso certo ma equilibrato. Perché controllare il linguaggio significa controllare la realtà sociale, avere il potere di plasmarla, di ridisegnare i confini dei significati accettabili e non accettabili, desiderabili e non desiderabili, fino a che alcuni significanti si caricano di un giudizio valoriale superiore ad altri. E di qui, il passo verso la prevaricazione, sia essa fisica o psicologica, e la negazione della libertà e del pieno godimento dei diritti, è pericolosamente breve. Ecco perché è una battaglia che non possiamo permetterci di perdere.
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