Il 9 maggio è una grande festa per l’Europa, una ricorrenza che vuole celebrare con gioia la partecipazione ad un progetto economico istituzionale politico e sociale che non ha precedenti nella storia mondiale. Nessuno dei grandi imperi della storia si è mai retto, in ultima istanza, su qualcosa di diverso dall’esercizio della forza da parte del potere. E la forza è stata tragicamente al centro dell’ultimo tentativo, efferato criminale disumano, di imporre sul suolo europeo un nuovo impero che voleva ergersi sulle basi della prevaricazione sociale e politica, e che faceva della violenza, sistematica odiosa vigliacca, il proprio strumento prediletto.
Il 9 maggio del 1950 viene per la prima volta proclamato con coraggio quello che per l’epoca era poco più di un’utopia, una visione politica che rilanciava il sogno ancora più coraggioso di uomini come Altiero Spinelli. Nel clima di un’Europa dilaniata dalla guerra più sanguinosa e scellerata della storia, in un panorama internazionale di profondo sospetto e di minaccia di reciproca distruzione nucleare, alcuni paesi, per mezzo di uomini politici dalla lungimirante visione politica, decisero di dare vita ad un progetto di civiltà della portata inaudita.
Sono molti i valori che costituiscono le fondamenta di questa nostra Europa. La pace, prima di ogni altra cosa. Settant’anni fa, dopo appena cinque anni dalla fine di quell’esperienza tragica che aveva sconvolto un intero continente, quello della pace tra le nazioni europee era il più
stringente degli imperativi morali e politici che ispirarono la fondazione di una nuova comunità di stati i cui obiettivi dichiarati erano di matrice economica ma il cui telos, allora come ora, era quello di un orizzonte politico e sociale. Politico perché, tra quei valori guida, un ruolo centrale spettava a ideali come libertà, diritti, democrazia. Questi ideali trovavano forma nello stato di diritto e nelle costituzioni democratiche degli stati dell’Europa occidentale. E sociale perché quella costruzione che rivoluzionava secoli di odi e conflitti, per quanto orchestrata dalle élite politiche, non poteva sopravvivere senza una «solidarietà di fatto» non solo tra le cancellerie ma anche, e soprattutto, tra le nazioni e i popoli europei.
«L’Europa non verrà costruita in un giorno», sottolineava Robert Schuman; piuttosto, l’Europa è un progetto, e come tale difficilmente può contemplare un traguardo finale, una linea di arrivo (nemmeno gli agognati Stati Uniti d’Europa). Dal canto suo Jean Monnet, un altro tra i padri fondatori della nostra casa comune, sottolineava che il destino di questo progetto è di progredire in modo incrementale, un passo dopo l’altro, ma che sarà nei momenti di crisi che l’Europa troverà il coraggio di tramutare quei passi in salti, in un deciso sforzo verso un’integrazione sempre più profonda. Quello che la nostra Europa sta affrontando oggi è evidentemente un momento di altissima crisi, la più acuta dai tempi di quella guerra mondiale dalle cui macerie è scaturita la scintilla che ha avviato questo progetto.
Se l’Europa di allora aveva bisogno di visione, l’Europa di oggi ha bisogno di coraggio. «La politica è utile quando è coraggiosa, e quando è coraggiosa può cambiare le cose», ci ricorda in un accorato videomessaggio David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo. L’Europa che uscirà da questa crisi non può essere la stessa che ci è entrata: ecco perché, a 70 anni dall’avvio di quella che egli definisce «la più straordinaria avventura politica dell’età contemporanea», questa nostra Europa va celebrata e difesa. Ed è evidente che difenderla significa anche aiutarla a migliorare, attraverso un impegno continuo che non può che imperniarsi sulla partecipazione alla cittadinanza democratica.
Un’ultima parola, sopra a tutte le altre, mi preme di sottolineare oggi, per comprendere meglio qual è il senso di Europa: un “senso” inteso tanto come significato quanto come direzione che questo progetto deve seguire. È una parola inglese, che non trova una corrispondenza precisa nella nostra lingua: togetherness. È la sostantivazione (-ness) dell’avverbio “insieme” (together): indica dunque la situazione dello stare insieme, la sua necessaria condizione, concettuale sociale politica, di condivisione e di scambio tra istanze che possono – devono! – essere diverse. «Uniti nella diversità» è il motto di questa nostra Europa: e la parola più importante è proprio quella preposizione articolata, perché ci indica che siamo uniti e liberi non nonostante ma precisamente grazie alle nostre diversità. Ci indica che le diversità che ci contraddistinguono sono un valore, il presupposto necessario per la condivisione, e che da questa diversità costitutiva nasce non lo scontro ma l’incontro. Ecco quindi che questa strana e intraducibile parola, togetherness, ribadisce una cosa che a volte tendiamo a dimenticare: che l’Europa è casa, è casa di tutti ed è casa per tutti. E in quanto tale, questa nostra casa comune richiede cura da parte di tutti noi.
Ma il significato del 9 maggio, per il nostro paese, è ancora più profondo. Dal 2007, questo è il giorno in cui ricordiamo le vittime delle stragi e del terrorismo. È la nostra Giornata della Memoria. Come tutte le ricorrenze, quella scelta è una data simbolica: è il giorno in cui, nel 1978, venivano ritrovati i cadaveri di Aldo Moro e di Peppino Impastato. Moro e Impastato, insieme a molte, troppe altre persone, non sono “morti”: sono stati assassinati, uccisi tanto brutalmente quanto codardamente nel tentativo di rovesciare con la violenza l’ordinamento democratico sul quale è radicata la nostra Repubblica. A uccidere Moro e Impastato sono certo state mani diverse: le Brigate Rosse l’uno, Cosa Nostra l’altro. E c’è un’altra mano criminale che, pur non avendo direttamente a che fare con queste due storie, è responsabile di altre morti altrettanto violente ed ingiustificate: quella del terrorismo neofascista.
Oggi, la comunità italiana si raccoglie nel ricordo di quelle morti assurde, nella memoria di quella «notte della Repubblica» che Sergio Zavoli descrisse nella sua colossale serie-inchiesta come la «prova più drammatica che la società civile e le istituzioni italiane abbiano affrontato in epoca repubblicana». Piazza Fontana, Gioia Tauro, Piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione di Bologna: queste ed altre atrocità hanno segnato in modo indelebile la storia di un paese che cercava di bilanciarsi nel mezzo della guerra fredda, attraversato da enormi sconvolgimenti sociali che portarono anche storiche conquiste di civiltà. È difficile scrivere, soprattutto per uno della mia generazione, cosa abbiano significato gli anni di piombo. È ancora più difficile osservare le immagini di quei tragici eventi, difficile mantenere a lungo lo sguardo su quelle scene di indicibile sofferenza. Non intendo qui ripercorrere la storia dello stragismo italiano, ché ispezionare quelle pagine oscure richiederebbe uno spazio che non questo articolo, ma cento libri farebbero fatica a contenere. Né, tantomeno, mi permetto di rivolgermi al dolore straziante dei familiari delle vittime.
Il mio vuole piuttosto essere un umile contributo in questo momento di raccoglimento collettivo, nel contesto del quale ritengo fondamentale mantenere vivo il ricordo di questi tremendi fatti di sangue per tramandarci l’un l’altro un valore profondamente umano, che in situazioni come questa si carica di un’ulteriore dimensione civica: il valore della memoria. Ricordare l’efferatezza di quella stagione, la tremenda sfida posta allo stato, la minaccia alla tenuta democratica della comunità, è essenziale per disinnescare il rischio di rimozione di un’esperienza così sconvolgente e per scongiurare contestualmente il pericolo che situazioni del genere possano un giorno ripresentarsi. Un paese senza memoria storica è un paese senza futuro.
Nella prima edizione di questa celebrazione nazionale, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano osservava che ad accomunare quegli eventi di sangue, pur spinti da motivazioni opposte, era «il dato dell’intolleranza e della violenza politica, dell’esercizio arbitrario della forza, del ricorso all’azione criminale per colpire il nemico e non meno brutalmente il diverso, per sfidare lo Stato democratico». Ecco dunque che per proteggerlo, questo nostro stato democratico, è necessario ribadire con vigore «la cultura della convivenza pacifica, della tolleranza politica, culturale, religiosa, delle regole democratiche, dei principi, dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione repubblicana. E occorre ribadire e rafforzare, senza ambiguità, un limite assoluto […]: il limite del rispetto della legalità». Nella nostra Repubblica democratica, infatti, la manifestazione del dissenso e la contestazione politica non possono in alcun modo travalicare questo limite, né possono essere invocate per nascondere o peggio giustificare l’eversione nuda e cruda, l’attacco criminale allo stato, alle sue istituzioni e ai suoi cittadini.
A rendere ancora più insopportabile il ricordo, tuttavia, è il fatto che tuttora permangano troppe lacune nella ricostruzione storica e giudiziaria, il fatto che ancora non si sia giunti ad una verità che è il primo e più importante riconoscimento del sacrificio innocente di quelle vite ingiustamente spezzate. Il fatto che parti dello stato abbiano voltato le spalle alla democrazia, alla Repubblica, e stretto la mano al terrorismo stragista. Come precisa oggi il capo dello stato Sergio Mattarella, se è vero che «ricordare è un dovere», è altrettanto vero che «la verità resta un diritto, oltre che un dovere per le istituzioni».
In questo 9 maggio così insolito, nel mezzo di una pandemia globale che ha colpito impietosamente la nostra penisola, ecco dunque che unitamente al ricordo dobbiamo rinnovare l’anelito alla verità, senza la quale non può darsi alcuna forma di giustizia. Questo 9 maggio è
ancora l’occasione di ribadire con fermezza che nel nostro paese la democrazia è più forte dei nauseabondi rigurgiti di violento estremismo che ancora, purtroppo, l’ammorbano. Che i veri uomini di stato e la parte migliore della società civile sono uniti nel gridare che la Repubblica
non verrà sovvertita. E ancora una volta, affinché ciò non avvenga è indispensabile il nostro impegno quotidiano e infiaccabile, che si traduce in una cittadinanza democratica partecipata, consapevole e responsabile.
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