Dati inconsapevolmente

19 miliardi di dollari: questo è il prezzo pagato da Facebook per acquistare Whatsapp. Si tratta di una cifra a nove zeri che a fatica riusciamo a quantificare, sufficiente per comprare l’intero Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, o tutto il Vaticano, risparmiando addirittura un paio di miliardi. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: come è possibile che un’applicazione completamente gratuita possa avere un simile valore? E’ opportuno chiedersi quale sia il prezzo di tale gratuità.

Ecco la verità: non paghiamo il prodotto perché la merce di scambio siamo proprio noi, o meglio l’infinita quantità di dati e informazioni che produciamo quando facciamo uso delle nostre applicazioni. I dati, infatti, sono ormai una preziosissima fonte di ricchezza, tanto che, solo l’anno scorso, il loro valore ha superato quello del petrolio. Ma chi produce questa ricchezza? Noi utenti, che non solo non riceviamo alcun compenso, ma anzi dobbiamo ritenerci fortunati se il nostro prodotto non viene utilizzato da aziende e governi per manipolarci.

Oggi, dopo grandi scandali, primi tra tutti quelli legati al ruolo di Cambridge Analytica nelle elezioni di Trump e nella Brexit, dovuti soprattutto alle scarse politiche di tutela degli utenti da parte di Facebook, abbiamo iniziato a comprendere il potenziale dei dati e a dotarci di leggi in grado di tutelarci, ma la strada è ancora lunga. Il principale problema da affrontare, infatti, rimane ancora quello dell’inconsapevolezza da parte degli utenti e di un uso scorretto e poco attento della tecnologia.

Spesso, in effetti, non siamo nemmeno in grado di comprendere a fondo come l’enorme quantità di dati che è possibile raccogliere su ciascuno di noi possa essere utilizzata a nostro danno.

Aggregatori di big data e vari compratori possono acquisire i dati ottenuti da siti o enti e ricavarne informazioni che verranno rivendute per essere utilizzate in diversi modi. Le banche, per esempio, possono registrare le vostre transazioni e vendere i dati ottenuti alle aziende, che capiranno per quali prodotti siete disposti a spendere la maggior parte del vostro stipendio.

Tra gli strumenti più utilizzati per raccogliere dati ci sono i cookie: una parolina amichevole dietro la quale, però, si cela uno strumento molto potente, che può essere utilizzato a danno di cittadini e consumatori ignari. Vi siete mai chiesti a cosa servano? I cookie, sostanzialmente, tracciano ogni cosa facciate sul vostro computer o telefono. Potete provare a controllare, grazie ai componenti software aggiuntivi dei browser, come Mozilla’s Lightbeam, quante società stanno tracciando la vostra attività online.

I cookie, nati come un servizio che potesse fornire una memoria ai siti internet, utile a migliorare l’esperienza d’uso per l’utente, grazie al loro grande potenziale di personalizzazione sono diventati un’arma a doppio taglio. Da un lato, infatti, permettono la personalizzazione dell’esperienza di navigazione dopo la prima visita ad un sito, quasi come camerieri amichevoli che ricordano le preferenze di un cliente che si ripresenta al ristorante. Grazie ai cookie, infatti, il sito si adatta agli interessi e alle esigenze dell’utente, fornendo suggerimenti mirati, che permettono di risparmiare tempo in ricerche inutili. Inoltre, i cookie salvano i dati ed evitano di doverli reinserire ad ogni acquisto. Dall’altro lato, però, raccolgono tutte queste informazioni in un modo che può sembrare non del tutto chiaro e trasparente, soprattutto perché non sappiamo se e a chi verranno rivenduti i nostri dati. Tramite cookie, infatti, un sito può monitorare anche le azioni effettuate durante la navigazione, come quali inserti pubblicitari o articoli vengono ignorati, quali attirano la nostra attenzione, il tempo di lettura, cosa viene condiviso e molto altro (nel caso leggiate un libro su Kindle o su Google Books, per esempio, sappiate che state producendo dati su quanto impiegate a leggere una pagina, in quali punti vi fermate o quali passaggi sottolineate): si tratta dei cosiddetti dati comportamentali, che combinati a quelli ottenuti dai vostri social, permettono agli aggregatori di realizzare un quadro della vostra personalità estremamente preciso e molto utile. Dal punto di vista commerciale, infatti, è chiaro che più le società conoscono i loro acquirenti più possono sottoporli a interventi mirati e vendere i loro prodotti, nonché identificare tendenze di massa sulla base delle quali impostare la loro produzione.

Tuttavia, l’esperienza di Cambridge Analytica e il ruolo che ha assunto nelle elezioni di Trump e nel referendum per la Brexit, ci ha insegnato che i dati possono essere utilizzati anche in ambito politico. I politici, infatti, possono utilizzare i dati comportamentali degli utenti per mostrare loro informazioni che li indurranno a ritenere vero un messaggio, così da manipolare le loro intenzioni di voto.

Una volta raccolti i dati di migliaia di utenti, grazie al microtargeting comportamentale è possibile suddividere la popolazione in gruppi di persone che hanno in comune gli stessi tratti della personalità e gli stessi interessi, e sviluppare messaggi appositamente studiati per loro. Cambridge Analytica, per esempio, suddivideva gli utenti in base al sistema di valutazione OCEAN, che permetteva di definire il loro livello di apertura (O), coscienziosità (C ), estroversione (E), disponibilità (A) o nevrosi (N). In base al punteggio ottenuto in ciascuna di queste variabili le persone potevano essere suddivise anche in 32 gruppi diversi, per ciascuno dei quali venivano elaborati messaggi specifici, concentrandosi principalmente sugli elettori indecisi. Il punteggio ottenuto in relazione alla variabile disponibilità, per esempio, mostrava quanto si fosse predisposti a anteporre i bisogni altrui ai propri, mentre un livello di nevrosi alto indicava persone tendenti a farsi influenzare dalla paura al momento di prendere delle decisioni. Così, nel caso di gruppi caratterizzati da un’alta disponibilità, si mostravano messaggi volti a sottolineare l’impegno sociale del candidato assistito da CA, mentre a quelli caratterizzati da alti livelli di nevrosi si proponevano inserti pubblicitari tali da sottolineare la pericolosità insita, per esempio, nel fenomeno migratorio.

Se queste realtà possono ancora sembrarvi distanti, pensate all’ambito assicurativo, in relazione al quale l’utilizzo dei dati può assumere un ruolo chiave. Siete giovani studenti di medicina? Immaginate di voler lavorare in un paese in cui medici e chirurghi sono tenuti per legge a avere un’assicurazione contro danni ai pazienti per negligenza nell’ambito dell’esercizio della professione. Sappiate che, grazie al sistema della valutazione predittiva, è possibile trarre informazioni sul vostro vissuto emotivo e valutare la vostra predisposizione a disturbi psicologici. Così, se dai modelli ottenuti risulterete essere a rischio più di altri, il premio assicurativo potrebbe rivelarsi troppo alto, privandovi della possibilità di trovare un impiego. Pensiamo a un altro esempio: siete giovani neopatentati? Se dai consumi registrati sulla vostra carta di credito risultasse che acquistate spesso alcolici il prezzo della vostra assicurazione potrebbe salire esponenzialmente, diventando insostenibile. O ancora: siete giovani studentesse a cui piacciono i bambini? Forse sarebbe meglio assumere quella vostra compagna di corso che ha intenzione di dedicarsi esclusivamente alla carriera e che non vuole avere figli, come emerge dal suo profilo Facebook. Non vi piace fare attività fisica? Questo innalza le vostre probabilità di ammalarvi un giorno, per cui sarebbe preferibile assumere il vostro amico che si allena tre volte alla settimana. Spiacente.

Grazie alla cosiddetta “talent analytics”, infatti, è possibile valutare gli aspiranti dipendenti, capire per quali compiti sono più portati e come motivarli. Tra i profili sgraditi alle aziende potrebbero essere compresi quelli dei lavoratori più disposti a portare avanti rivendicazioni sindacali, a chiedere aumenti, quelli scarsamente empatici, con uno scarso livello di attenzione e così via, tutti aspetti della propria personalità che durante un colloquio di lavoro sarebbe possibile quantomeno mascherare. Tutto ciò potrebbe portare molte persone con profili psicologici “meno desiderabili” a vedere le loro possibilità lavorative fortemente ridotte in nome di una maggiore efficienza.

Non cadete in inganno: qui non si stanno descrivendo possibili scenari futuri, ma una realtà che esiste già e che ha e avrà un enorme impatto sulle vostre vite. Tuttavia converrete che molto raramente ci capita di sentirne parlare e di avere reali occasioni di informarci sul tema: la scuola non si occupa di dati, sebbene saranno parte integrante della vita degli adulti di domani, così come non esistono corsi di formazione per i lavoratori o talk show che mirino a rendere comprensibile l’argomento anche a chi non ha solide basi informatiche.

L’argomento non attira abbastanza l’attenzione del pubblico? In realtà sulla base di un’indagine Agcom, l’Autorità per la garanzia delle comunicazioni, risulta che in Italia la domanda di informazione è molto superiore all’offerta nei settori della scienza e della tecnologia. Tuttavia i giornalisti italiani non sono abbastanza preparati: soltanto il 13% di chi si occupa di questi temi ha una solida preparazione nel campo. Pertanto l’informazione specifica sui dati non solo viene fornita in misura più contenuta di quanto sarebbe richiesto, ma è anche prodotta per lo più da professionalità che non dispongono delle competenze specialistiche necessarie per diffondere informazioni corrette. Dall’altra parte i grandi esperti in materia spesso peccano di capacità comunicative verso i lettori o gli ascoltatori meno informati risultando
troppo difficili da comprendere e di conseguenza, per una naturale quanto ingenua inclinazione umana, poco interessanti. Il risultato è la quasi totale assenza di dibattito pubblico sul tema, a discapito di molti cittadini ignari che continuano a trattare i loro dati inconsapevolmente, proprio perché non gli sono stati forniti gli strumenti necessari per diventare fruitori più consapevoli delle nuove tecnologia. Raramente, infatti, ci capita di avere occasione di capire con cosa abbiamo a che fare davvero e quando accade, come spero stia succedendo a voi, l’istinto primario è quello di precipitarsi a cancellare tutti i cookie accumulati negli ultimi dieci anni di navigazione.

Allo stato attuale delle cose, quindi, i dati sono un’enorme fonte di ricchezza per alcuni, mentre per i più si tratta di un terreno sconosciuto. C’è chi sostiene che sarebbe necessario creare un’economia più inclusiva, tale da permettere a tutti, e non solo a enti e imprese, di arricchirsi sfruttando i big data: in quanto produttori di questa incredibile fonte di ricchezza gli utenti dovrebbero poter disporre liberamente dei propri dati, scegliendo a chi e in quale quantità venderli. Tuttavia, al di là delle strade che intraprenderemo per risolvere il problema dal punto di vista economico, occorre innanzitutto fare in modo che la popolazione sia davvero consapevole delle potenzialità e degli usi possibili dei dati. E’ importante, quindi, investire sull’alfabetizzazione digitale cosicchè le persone non solo sappiano utilizzare la tecnologia, ma ne comprendano anche i rischi.

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