L’Euro spegne venti candeline: un bilancio parziale di un compleanno poco festeggiato

Il 1 gennaio 1999, poco più di un quinto di secolo fa, la moneta unica veniva introdotta in Italia come valuta ufficiale per le transazioni elettroniche e i titoli di credito, anticipando la transizione completa come moneta corrente che avvenne solo nel Capodanno del 2002. Il 31 dicembre del 1998 il Consiglio Europeo aveva stabilito il tasso di cambio tra la vecchia moneta nazionale e quella che avrebbe accompagnato il Paese nel nuovo millennio: un euro valeva 1936,27 lire. Allora come oggi, i leader politici della penisola, come pure gli intellettuali ed economisti, presentavano opinioni contrastanti sulla moneta unica, tra chi ne osannava i futuri benefici con inaspettate doti di preveggenza, come Romano Prodi, allora presidente della Commissione Europea, e chi nascondeva il proprio euroscetticismo spacciandolo per nostalgia, come il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che di lire, certo, ne aveva fatte tante (cit.). Nel frattempo, il Paese era percorso da un misto tra ansia, paura e euforia, con grande confusione nelle banche e agli sportelli bancomat, mentre nelle case cominciavano ad arrivare le calcolatrici blu e gialle del governo con l’euroconvertitore.

Il dado era tratto. L’Italia era stato uno dei paesi firmatari del Trattato di Maastricht del 1992, che non solo aveva creato l’Unione Europea come la conosciamo oggi, ma aveva anche stabilito i criteri di convergenza verso l’unione monetaria, cui l’Italia aveva aderito. Con non pochi sacrifici (e comunque attestandosi ad un livello di debito pubblico già superiore al target ideale di Maastricht) l’Italia si avviava ad adottare la moneta unica insieme ad altri dieci paesi europei.

Oggi, nel 2019, l’Euro è una valuta internazionale a tutti gli effetti, la seconda per volumi di transazioni a livello globale dopo il dollaro statunitense. È utilizzata, direttamente o indirettamente, da circa sessanta paesi in tutto il mondo ed è considerata abbastanza sicura da potervi sottoscrivere titoli di credito di media e lunga durata anche da stati nei quali non è il conio ufficiale. Tuttavia, la strada per scalzare il dollaro come valuta “di rifugio” è ancora lunga e tutta in salita, così come lo è il percorso per completare un’unione monetaria che rimane, ad oggi, imperfetta. Ciononostante, la moneta unica rimane molto popolare tra gli europei, come rivela l’ultimo sondaggio Eurobarometro. L’Indice di gradimento dell’Euro tocca punte dell’80% e 85% rispettivamente in Lussemburgo e Irlanda, si attesta sul 70% in Germania e al 60% perfino nella martoriata Grecia. Nel Belpaese, il 57% degli italiani ritiene che l’Euro sia una cosa buona, circa il 12% in più rispetto al 2017. Questa elevata fiducia nella valuta comunitaria trova forse spiegazione in un’intera generazione di europei per cui ormai la lira, il franco o il marco sono solo ricordi nei racconti di nonni e genitori.

Ad ogni modo, compiere un bilancio di un progetto come l’Euro è un’operazione complessa e difficilmente univoca, e non esistono chiare analisi costi-benefici che possano dare un responso chiaro sulla moneta unica e sul suo futuro. L’Euro era e rimane un progetto pienamente politico prima che economico, e qualsiasi analisi tecnica sui suoi trascorsi e i suoi esiti sarebbe riduttiva e poco efficace. Con queste premesse, proviamo lo stesso a mettere insieme qualche riflessione.

È vero che la moneta unica europea resta l’esperimento economico più ambizioso di sempre, ma è anche altrettanto vero che non ha prodotto l’accelerazione nel processo di integrazione economica, soprattutto dal punto di vista degli scambi commerciali intra-europei, che i suoi sostenitori avevano previsto. E la convergenza economica tra le economie nazionali è avvenuta solo in parte. Negli ultimi dieci anni, con il crac della Lehman Brothers negli Stati Uniti e la crisi del debito sovrano nel vecchio continente, i difetti strutturali della moneta unica sono emersi più chiari che mai. L’Euro, occorre dirlo, non ha funzionato per tutti nello stesso modo. I benefici non sono stati gli stessi per i tedeschi e gli italiani, per gli spagnoli e i francesi, per gli olandesi e i greci. Sebbene la colpa della debole performance dell’Euro venga spesso data a politiche economiche nazionali troppo miopi e pro-cicliche, la bilancia sembra pendere dalla parte dei difetti strutturali con cui l’Euro è stato concepito fin dall’inizio.

Secondo le teorie degli economisti istituzionalisti (scuola di pensiero rappresentata, ad esempio, da Tommaso Padoa Schioppa in Italia), le valute nazionali rappresentavano l’ultima barriera per la realizzazione di un mercato unico, nel senso più purista del termine. L’Euro doveva così essere la prosecuzione naturale di un processo di convergenza politico-istituzionale iniziato con il sogno di una pacifica ricostruzione economico-sociale europea formalizzato con il Trattato di Roma nel 1957.

Tuttavia, alcuni economisti già mettevano in guardia sull’Euro. Infatti, secondo la teoria sviluppata dall’economista e premio Nobel canadese Robert Mundell a partire dagli anni sessanta, un’area valutaria ottimale (in inglese optimum currency area) esiste tra più economie nazionali se le seguenti condizioni vengono rispettate: una integrazione del commercio è preesistente alla creazione della moneta unica; i cicli macroeconomici rispondono in maniera simmetrica agli shock della domanda e dell’offerta; i fattori produttivi (ad es. il capitale o il lavoro) godono di flessibilità e mobilità all’interno dell’area valutaria; i trasferimenti fiscali sono attivati in maniera quasi del tutto automatica qualora ci fosse bisogno di riequilibrio. L’unica delle condizioni sopracitate che era ed è pienamente rispettata è la prima, ovvero l’integrazione commerciale. Ma le vere note dolenti arrivano se si pensa alla reale mobilità di alcuni fattori produttivi, primo tra tutti il lavoro, e alla mancanza di un’unione fiscale. Se è vero che i capitali possono muoversi liberamente all’interno dell’area euro, non si può dire la stessa cosa del lavoro, per ragioni soprattutto linguistiche e culturali. Il cittadino americano non ha barriere di questo tipo se vuole portare il proprio lavoro dal Michigan alla California, e non è paragonabile, ad esempio, ad un italiano che potenzialmente ha le skills richieste dal mercato del lavoro tedesco ma non può trasferirsi per ragioni linguistiche. Dal punto di vista fiscale, sempre proponendo un parallelo con lo stato federale americano, esiste negli Stati Uniti una solidarietà fiscale completa per cui lo Stato può decidere di spostare risorse da una parte all’altra del paese per riequilibrare le sorti. Questo è possibile perché uno stato federale ha un unico Tesoro che emette titoli di debito comuni.  Non è così che avviene per l’area euro.

Insomma, la moneta unica, considerando solo alcuni degli aspetti economici essenziali (non abbiamo toccato tematiche chiave come ad esempio il ruolo della Banca Centrale) non è nato sotto i migliori auspici e sicuramente l’area euro non era (e probabilmente non è) un’area valutaria ottimale. Non a caso economisti (per giunta europeisti) di fama mondiale, come il premio Nobel americano Paul Krugman o il belga Paul de Grauwe lo evidenziano da tempo. Sebbene qualcosa sia stato fatto soprattutto sul lato fiscale dopo la crisi, come ad esempio l’istituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità (detto anche fondo salva-stati), la politica si è mossa lentamente per correggere le asimmetrie inevitabili quando si mettono insieme economie capitaliste con diversi modelli di sviluppo alla base.

Come suddetto, tuttavia, non si può guardare all’Euro solo con la lente di ingrandimento dell’economia. Va ricordato, infatti, che la moneta unica ha visto la luce in un contesto in cui gli assetti geopolitici venivano profondamente mutati con la sparizione della cortina di ferro. Se è vero che la moneta unica è stata il risultato di un accordo franco-tedesco in cui i tedeschi rinunciavano al marco per avere via libera alla riunificazione delle due Germanie e all’entrata della Germania riunificata nell’Unione Europea, è altrettanto vero che il progetto dell’unione monetaria ebbe ampia risonanza perché diede nuova speranza alle economie industrializzate d’Europa che, già all’inizio degli anni novanta, avvertivano un declino relativo imminente rispetto a colossi consolidati quali gli Stati Uniti e soprattutto alle nuove potenze commerciali emergenti quali la Cina. Sotto questa luce, la nascita dell’euro trova maggiori e migliori spiegazioni. E anche oggi, forse, ci dovremmo interrogare sul se e sul come portare avanti l’esperimento monetario seguendo questa linea di pensiero e non quella puramente economico-finanziaria.

Infine, l’episodio non ancora conclusosi della Brexit deve far riflettere sul fatto che gli accordi presi in ambito internazionale e sanciti con i trattati fondativi dell’UE vanno rispettati e che sicuramente è più coraggioso, anche se probabilmente non meno difficile, risolvere l’impasse e il deficit democratico in cui l’Europa si trova in questo momento facendo un passo avanti verso l’integrazione monetaria (ma non solo) e non ripiegandosi nelle rispettive nicchie sovraniste.

 

Fonti

https://www.agi.it/economia/20_anni_euro-4788842/news/2019-01-01/

http://www.finanza.com/Finanza/Notizie_Italia/Italia/notizia/Vent_anni_di_euro_Draghi_per_i_giovani_non_esiste_altra_mo-500855

https://www.huffingtonpost.it/roberto-sommella/euro-1999-2019-ventanni-di-solitudine_a_23630592/

https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-12-30/europe-s-five-presidents-say-euro-still-needs-work-20-years-on

http://escoriallaan.blogspot.com/2018/10/the-european-commission-should-accept.html

https://tg24.sky.it/economia/2011/12/03/crisi_euro_blob_dichiarazioni_nascita_moneta_unica_2001_monti_prodi_berlusconi_bersani_bossi.html

http://www.repubblica.it/online/economia/euroecco/caos/caos.html

https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-11-20/sorpresa-l-euro-piace-sempre-piu-italiani-124900.shtml?uuid=AE3oV4jG

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