Il 3 giugno 2016, venti giorni esatti prima del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, nello studio di Sky News il giornalista Faisal Islam intervistava Michael Gove, l’allora ministro della giustizia del governo Cameron e noto “Leaver”, il quale pronunciò la ormai celebre frase: “People in this country have had enough of experts” (Questo paese ne ha avuto abbastanza degli esperti). Venti giorni dopo, i cittadini del Regno Unito votarono per uscire dalla UE, in quello che molti hanno identificato come un voto contro (anche) gli esperti, colpevoli di aver previsto scenari catastrofici in caso di vittoria del Leave e di far parte del cosiddetto Project Fear. Gli economisti avevano infatti previsto un brusco rallentamento della crescita del Regno Unito a causa dell’incertezza che si sarebbe venuta a creare nel caso il Regno Unito avesse avuto un mandato popolare per negoziare una non meglio definita uscita dalla UE.
E, con sorpresa di molti dei cosiddetti esperti, per i primi due trimestri post-referendum, non solo il Regno Unito non cadde in recessione, ma non ci fu nemmeno un palese rallentamento nella crescita di un economia che allora correva tra le più veloci in Europa, con tassi di crescita pari a 3.1% e 2.3% rispettivamente nel 2014 e nel 2015. Gove e gli “scettici” sembravano aver avuto ragione.
Come spesso accade, non è tutto ora ciò che luccica. Spulciando i numeri delle componenti della crescita del PIL britannico, il Financial Times riporta che i consumi sono il principale “driver” della crescita economica, e che questo è accompagnato da un calo vertiginoso nel tasso di risparmio delle famiglie del Regno Unito, che si attesta al 3.3% nell’ultimo trimestre del 2016.
Questa “non-caduta” della domanda aggregata in un periodo di forte incertezza è sicuramente inusuale, ma parzialmente giustificata dall’azione della Bank of England.
Agli inizi di agosto 2016, Mark Carney, governatore della BoE, annunciò il primo taglio dei tassi in sette anni. Infatti, il tasso di interesse ufficiale venne tagliato dal 0.5% al 0.25% e il QE fu “potenziato” con una aggiunta di 70 miliardi di sterline di bonds acquistati. Durante la conferenza stampa che accompagnò questa decisione, Carney sottolineò come le banche inglesi “non avevano scuse” per non trasmettere il calo degli interessi anche ai prestiti commerciali, enfatizzando la natura di questa modifica della corrente politica monetaria: il sostegno alla domanda.
Se si considerano gli effetti economici della Brexit, tuttavia, la più immediata e palese conseguenza è sicuramente il pesante deprezzamento della Sterlina verso altre valute, come Euro e Dollaro. In particolare, la Sterlina veniva scambiata per 1,30€ nei giorni precedenti al referendum, per poi precipitare a 1,17€ all’indomani della vittoria del Leave. Questa svalutazione è poi continuata fino a toccare i minimi di 1,08€ ad agosto 2017, e, nonostante una politica alquanto “hawkish” da parte della BoE nel corso degli ultimi mesi, la sterlina non ha toccato quota 1.15€ dalla seconda metà del 2017
Nonostante questo deprezzamento, la bilancia commerciale del Regno Unito è rimasta in forte territorio negativo, portando il totale degli aspetti positivi derivanti da una svalutazione così massiccia a zero, se si esclude la perfomance positiva dell’indice large-cap FTSE100, il quale produce due terzi degli utili in territori extra-UK.
D’altro canto, gli effetti negativi di questa caduta della Sterlina sono chiari e facilmente identificabili.
Il rialzo dei costi di import ha dato il via ad una crescita dell’inflazione che ha toccato quota 3.1% nel novembre 2017, un numero che ha spinto la BoE ad aggiustare nuovamente i tassi, ritornando al 0.5%.
Come menzionato qualche riga fa, la crescita economica era spinta soprattutto dai consumi, ma, con una inflazione crescente e una produttività stagnante, i salari reali dei britannici sono in costante diminuzione, nonostante la disoccupazione sia a livelli da minimi storici. In questa situazione, le famiglie inglesi continuano a risparmiare di meno a indebitarsi per sostenere i consumi (che sono in rallentamento rispetto ai livelli del 2016), tanto che, nell’estate 2017, la Boe ha introdotto regole più stringenti per limitare la crescita dello stock del debito privato e limitare l’esposizione bancaria al debito famigliare.
Per quanto riguarda le altre componenti del PIL, l’investimento aziendale fatica ad ingranare, preda della crescente incertezza politica. Inoltre, l’industria manifatturiera britannica, ha mostrato segni di rallentamento in un periodo di forte espansione mondiale.
In termini di numeri, la crescita del PIL del Regno Unito si è attestata al 1,5 % nel 2017, fanalino di coda dei paesi UE, assieme all’Italia, mentre il FMI, ha rivisto al ribasso le prospettive di crescita britannica per il 2018, dal 2.2% al 1.5%.
In conclusione, si può affermare che la Brexit ha preso un Paese che cresceva in modo sostenuto e ha lasciato dietro di sé un Paese con un problema di inflazione crescente che impatta fortemente i salari reali dei lavoratori, nonostante un’economia operante a piena occupazione e che costringe la Banca Centrale ad una politica monetaria conservativa, con un debito privato in crescita che presenta dubbi di sostenibilità ed un’espansione economica strozzata da un timido settore privato, riluttante ad investire dato il clima di totale incertezza verso le future relazioni UK-UE. Espansione economica che potrebbe comunque ancora rallentare, qualora i lavoratori britannici frenassero i loro consumi.
Gli esperti, che nessuno sembrava voler ascoltare, hanno infine avuto la loro rivincita.
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