Tanti Auguri Europa, tra ripresa a scatti e populisti

Se l’Unione Europa fosse una persona, il 25 marzo scorso avrebbe spento 60 candeline, e chissà quale desiderio avrebbe espresso soffiandoci sopra. Forse una ricetta economica miracolosa, o un piano straordinario sul fronte immigrazione. Giunta ad un compleanno così importante, si trova a fare i conti con una crisi di identità molto forte. E nemmeno si può con certezza affermare l’esistenza di un’identità dato che l’Europa dei Ventotto-ora Ventisette- è lo specchio di un processo storico lontano dall’obiettivo di costruzione di una “casa Europea”. Una casa capace di far convivere in pace i popoli, ricercando radici comuni da tradurre in politiche condivise.NeosChart

Le ragioni che hanno spinto gli Stati Membri ad aderire all’UE sono assimilabili, malgrado le ovvie differenze strutturali tra Stato e Stato, e prettamente di natura economica. Il fascino dell’Europa unita è sempre stata legata alla creazione di una moneta e di un mercato unico, oltre che alla disgregazione delle barriere interstatali. Nei primi 35 anni la liberalizzazione degli scambi ha portato benefici in tutti i Paesi dell’allora Cee e, conseguentemente, anche il consenso verso le istituzioni comunitarie è stato molto forte. A inizio anni 90, l’84% degli italiani era favorevole alla Cee, e perfino il 63% degli inglesi lo era. Sembravano lontani i tempi della Brexit. (Figura 1: Analisi della presa di posizione dopo la ratificazione del Trattato di Maastricht-Flash Eurobarometro 14)

Ma una “casa Europea” le cui fondamenta sono solo economiche è destinata a crollare, o a perlomeno a disgregarsi pian piano, come ha dimostrato l’interminabile crisi. Infatti, oltre alle stime incoraggianti del FMI è interessante notare come la-flebile- ripresa sia diseguale, piena di contraddizioni. È vero che la ripresa dell’area dell’euro si è rafforzata nel corso dell’ultimo anno, portando con sé nel complesso più posti di lavoro e opportunità, ma lo slancio si trova ancora di fronte ostacoli quali l’alto debito pubblico in alcuni Stati, la mancanza di convergenza nei livelli di reddito tra i paesi, e la necessità di ridurre gli squilibri che si sono accumulati prima della crisi.

Paesi come Grecia, Italia e Portogallo sono ancora gravati da un alto debito pubblico, hanno limitati buffer per ammortizzare le scosse economiche e potrebbero veder aumentare i costi di indebitamento quando lo stimolo monetario sarà gradualmente ridotto, per esempio attraverso un minor numero di acquisti obbligazionari da parte della Banca centrale europea.

L’UE soffre anche di un problema più radicato, cioè la mancanza di convergenza tra i paesi a livello di reddito pro capite. Contrariamente alle aspettative, i paesi a basso reddito non sono cresciuti più velocemente dei paesi a reddito superiore mettendo in tal modo in discussione la promessa di redditi più elevati attraverso una più profonda integrazione economica, che è stata una delle motivazioni più gettonate all’adozione dell’unione monetaria. Questa mancanza di convergenza è strettamente connessa alla crescita della produttività più lenta nei paesi con livelli di reddito iniziali inferiori. Contemporaneamente, le lacune nella competitività tra alcuni di questi paesi si sono allargate negli anni successivi all’adozione dell’euro e i salari sono cresciuti più velocemente della produttività, aumentando i deficit commerciali e i livelli crescenti di debito estero.

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La convergenza dei livelli di reddito non è un presupposto per un’Unione monetaria funzionante, ma è stato considerato un obiettivo primario nel processo di integrazione economica europea, contribuendo a rendere condivisi i guadagni dell’integrazione economica.

La ricerca empirica ha dimostrato come le riforme strutturali svolgano un ruolo essenziale nella crescita della produttività (Adler e altri, 2017) mostrando come le riforme del mercato del lavoro e le  “product market reforms” abbiano un maggiore impatto sulla crescita nei paesi con livelli di produttività iniziali bassi( Banerji 2017)  fornendo così un importante strumento per riavviare la convergenza, in un’ottica di aumento della concorrenza e dell’efficienza. Le soluzioni proposte dal Fondo Monetario Internazionale nel recente report del FMI “Euro Area Policies” vanno in questa direzione, differenziandosi a seconda della possibilità di ciascun paese di agire sul proprio bilancio, con sistemi che possono essere “budget neutral” in Italia o in Portogallo o di più largo respiro in Stati come Germania e Paesi Bassi.

Sempre secondo L’FMI: “L’Unione europea potrebbe fare di più per incentivare l’azione dei singoli, ad esempio con sostegni mirati nei bilanci o continuando a spingere per una maggiore integrazione dei mercati dell’energia, del trasporto e del digitale. La creazione di un mercato finanziario europeo più unificato, invece dell’attuale pletora di minori nazionali, contribuirebbe ad accrescere gli investimenti diversificando le fonti di finanziamento. Infine, è auspicabile lo sviluppo di una capacità fiscale centrale per l’area dell’euro che potrebbe andare di pari passo con una riforma del quadro fiscale per semplificare le regole e rendere l’applicazione più automatica.”

Ora, ricollegandosi a quanto detto sullo stato attuale di crisi d’identità, la domanda sorge spontanea: le istituzioni comunitarie hanno sufficiente potere per mettere in atto tali manovre? Oppure ogni Paese va per la sua strada? La seconda opzione sembra avere la meglio e l’esito del referendum in Gran Bretagna ne è la prova più evidente. Sebbene il 22 settembre la premier britannica May a Firenze abbia ribadito “la volontà di un’alleanza profonda e speciale con l’Unione” la politica “della rabbia” che ha portato alla Brexit è contagiosa e sempre attuale, a giudicare dal tentativo secessionista catalano. Rabbia sviluppatesi tra disprezzo e discredito nella politica dei governi, Ue in testa, colpevole di provvedimenti difficili ed impopolari. Una sorta di  “cultural backlash” associata ad elevati livelli di insicurezza economica, secondo le teorie analizzate nel paper “Trump, Brexit, and the Rise of Populism” dalla Harvard Kennedy School. Nessuno è sembrato in grado di cogliere il crescente malessere popolare, eccezion fatta per i “demagoghi” che con un linguaggio semplice ed immediato attaccano indistintamente “il sistema”, la classe dirigente colpevole di essersi allontanata troppo dal “popolo”. Un distacco pericoloso, che consuma la fiducia, benzina senza la quale il motore democratico rischia di spegnersi. Non possiamo permetterci di sostituirlo, rivolgendoci alle promesse dei populisti: leader carismatici (o anche solo abili affabulatori), governi dalla mano forte e un certo ritorno al passato, ai tempi del “si stava meglio” : senza euro, senza mercati globalizzati e con le frontiere chiuse. I “good old times” che hanno reso la Manica un po’ più larga.

Il 24 settembre le elezioni in Germania, pur confermando l’attuale cancelliera, hanno visto entrare nel Bunderstag per la prima volta l’estrema destra di AfD. Non è un caso. Nelle ultime elezioni infatti, l’estrema destra ha guadagnato più del 10% dei voti in Paesi come Olanda,Slovacchia,Finlandia, Danimarca, Francia, Ungheria, Svezia e, da ultima, Germania. Angela Merkel sarà costretta ad un’alleanza con verdi e liberali. Proprio il leader di tale partito, Lindner (possibile futuro ministro delle Finanze) ha recentemente ribadito un concetto già fortemente sottolineato in campagna elettorale: qualsiasi forma di compensazione finanziaria tra Stati ricchi e poveri è da respingere ed esiste la necessità di agire ne confronti degli stati insolventi.  Un’ Europa a 2 velocità, soprattutto in ambito finanziario, in cui vale il detto “chi fa da sé, fa per tre” e dove ci si accorda solo quando gli interessi convergono.

Eppure, negli stessi giorni, il presidente francese ha rilanciato l’Unione in un discorso alla Sorbona proponendo, oltre che misure cooperative per la difesa comune, una tassa sulle transazioni finanziarie che dovrà essere interamente dedicata allo sviluppo. Macron ha poi sottolineato la necessità di costruire una “zona euro forte, efficace, solidale” spiegando la necessità di “un bilancio più forte in seno alla zona euro”.

“Continuerò a credere in un’Europa unita” ha affermato. Chissà se le nuove prospettive tedesche permetteranno la continuazione dei lavori di “Rinascimento” europeo, incominciati con le elezioni in Eliseo e ora in stallo. In fondo, da En Marche a marche arrière il passo è breve per Macron. L’ascesa del partito di destra populista Fpö e il crescente sentimento nazionalista in Austria, possono complicare ancora di più il panorama.

L’onda populista è dilagante e non c’è dubbio che la crescita delle divergenze economiche in seno all’Ue sia stata una concausa. Non a caso i “programmi elettorali populisti” sono stati incentrati in larga parte sui concetti di patria, nazione, ripiegamento in sé stessi e un certo odio verso l’UE. Resta da capire quanto davvero possano fare in tema di risanamento economico partiti che hanno posto le basi del loro successo nelle divergenze economiche e sociali, inasprendole. In questo senso, il ritorno dei nazionalismi più che un’opportunità può costituire una minaccia, e la storia ci insegna dove questi ci abbiano portato, nel secolo che ci siamo lasciati faticosamente alle spalle.

 

Fonti

– European Commission Public Opinion: http://ec.europa.eu/commfrontoffice/publicopinion/index.cfm/Survey/index#p=18&yearFrom=1990&yearTo=2017

-IMF Country Report No. 16/219 EURO AREA POLICIES

-Crespo Cuaresma, J., D. Ritzberger-Gr¨unwald, and M. A. Silgoner (2008). Growth, convergence and EU membership. Applied Economics 40 (5), 643–656.

– Trump, Brexit, and the Rise of Populism:Economic Have-Nots and Cultural Backlash Faculty Research Working Paper Series – Ronald F. Inglehart and Pippa Norris

http://www.imf.org/en/News

http://www.corriere.it/esteri/17_settembre_26/macron-sorbona-rifondiamo-europa-ufficio-ue-asilo-2a20dddc-a2bf-11e7-82cf-331a0e731b92.shtml?refresh_ce-cp

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