Da anni, ancor prima della crisi, la disoccupazione è la principale piaga dell’economia italiana, connaturata in un mercato del lavoro che la scarsa mobilità sociale ha contribuito a rendere poco dinamico e flessibile.
Nonostante la disoccupazione si sia ridotta attestandosi a febbraio all’11,5% (-0,3%), anche con un calo della componente giovanile tornata ai livelli del 2012 (35,2%), le statistiche rimangono preoccupanti.
Secondo quanto emerge da uno studio della Fondazione Visentini presentato nelle scorse settimane presso l’ateneo LUISS, l’Italia rimane penultima in Europa in termini di equità intergenerazionale; i tempi di emancipazione economica hanno raggiunto livelli record, passando dai 10 anni del 2004 ai 18 attuali. In particolare, si stima che alle condizioni attuali un giovane possa diventare completamente autonomo soltanto al compimento dei 38 anni, rispetto ai 30 relativi al 2004.
A conferma di questi dati, la letteratura viene incontro con uno degli indicatori maggiormente diffusi per descrivere la precarietà delle condizioni socio-economiche di uno Stato, ossia il misery index (o indice di sofferenza). Coniato dall’economista Arthur Okun, il misery index è un coefficiente derivante dalla somma non pesata tra tasso d’inflazione e tasso di disoccupazione. Il tasso d’inflazione è qui rilevante poiché indica la perdita di potere d’acquisto derivante dall’aumento generalizzato del livello medio dei prezzi.
I dati relativi al 2016, mostrano come l’Italia si posizioni al 15-imo posto sui complessivi 65 con un valore pari a 11.6, tra i peggiori nel campione di paesi in esame.
Tuttavia, il maggior contributo negativo non è stato offerto dall’inflazione, negli ultimi anni prossima allo zero, quanto dalla disoccupazione, in particolare giovanile, accentuatasi a seguito della crisi economica.

Disoccupazione in Italia. Fonte: ISTAT

Misery Index 2016 per i Paesi più alti in classifica e previsioni per il 2017. Fonte: Bloomberg
Il dato strutturale sulla disoccupazione italiana è preoccupante non tanto a livello assoluto, quanto in presenza di bassa mobilità intergenerazionale di istruzione e reddito.
Difatti, la mancanza di mobilità intergenerazionale, agisce come filo conduttore per le disuguaglianze, contribuendo a rendere poco flessibile e iniquo il mercato del lavoro.
In particolare, la mobilità intergenerazionale è bassa quando le opportunità individuali, in termini di reddito, istruzione, occupazione, dipendono in maniera preponderante dallo status socio-economico del nucleo famigliare di origine. A conferma della tesi, vi sono numerosi studi condotti da Checchi, Ichino e Rustichini negli anni ’90.
Un ulteriore dato allarmante oltre alla ridotta mobilità intergenerazionale in Italia, è anche la situazione relativa agli studi accademici: secondo uno studio condotto dalla Fondazione RES di Palermo sulle università Italiane, preoccupante negli ultimi anni è il calo degli immatricolati, in particolare nel sud della penisola. Inoltre, a seguito dei tagli alla pubblica istruzione, e ai fondi alla ricerca, la qualità dell’istruzione è diminuita ulteriormente, contribuendo alla fuga di studenti e ricercatori all’estero. Nel 2014, la spesa pubblica dedicata all’istruzione rispetto al PIL è stata del 4.6%, in calo rispetto agli anni precedenti.
Mercato del lavoro e proposte di legge
In materia lavoro, per ridurre la precarietà e disoccupazione, da tempo si discute sull’abbattimento delle imposte personali nonché dei contributi sociali a carico dell’impresa e dei lavoratori. Secondo quanto emerge dal rapporto Taxingwages il dato italiano sul cuneo fiscale era solo di poco inferiore a quello di Francia e Germania e Paesi Scandinavi, ma ben al di sopra di quello paesi con welfare privato (Usa, Regno Unito).
Tuttavia, le alte tasse sul lavoro di Francia e Germania sono più che compensate da vantaggi di produttività per addetto rispetto ai livelli italiani, in cui pesa il dato relativo alle PMI dove livelli di produttività sono molto più bassi rispetto alle grandi imprese per fatturato (utile netto maggiore di 50 milioni). Si evince quindi che la tassazione sul lavoro dipendente non sia un problema quantitativo ma qualitativo.
Per quanto concerne i voucher, sebbene non siano stati impiegati come ponte a contratti di lavoro più stabili, essi hanno contribuito positivamente a combattere il lavoro nero e a garantire i lavoratori occasionali protezione assicurativa e i contributi pensionistici.
La polemica dei sindacati, in particolare CIGL, relativa alla precarietà dei voucher, è impropria, considerando che il ricorso a questo istituto nel 2016 è stato lo 0.3% delle retribuzioni complessive.
Quali le possibili soluzioni?
Per concludere, il vero problema dell’Italia non è la presenza, ma l’assenza di Stato come motore e promotore dell’economia, quello che la schumpeteriana Mariana Mazzucato definisce come “innovatore”, colui che finanzia, investe, che si assume rischi e che vede nella ricerca il filo conduttore della crescita economica e dell’occupazione.
Secondo Mariana Mazzucato, lo Stato arriva laddove non lo fa il privato, poiché recupero di competitività passa per la crescita della produttività via investimenti, innovazione, e formazione pubblica di alto livello. Tuttavia, parametri di Maastricht e Fiscal Compact, con riferimento particolare alle Clausole di Salvaguardia (che innescherebbero l’aumento automatico di IVA e accise), limitano lo spazio di manovra in termini di spesa pubblica del governo.
Quest’ultimo, difatti, si limita a cercare nelle riforme del lavoro, quali premi produttività, riduzione contributi sociali per i neo-assunti, la soluzione ai problemi disoccupazione e crescita, quando i problemi alla radice rimangono tutt’altro che risolti.
FONTI: Bloomberg, Sole24Ore, La Voce, Repubblica
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