Se l’Occidente guarda alla Cina: WeChat come modello di super-app

La Cina è considerata la patria delle imitazioni, il luogo dove qualsiasi prodotto viene rifatto e riproposto sul mercato a prezzi decisamente inferiori. Il tutto a scapito della qualità. Fino a poco tempo fa anche il mondo di Internet e in particolar modo quello delle app rifletteva questo scenario: la rete cinese è isolata dal resto del mondo, tutti i grandi siti occidentali sono bloccati dal governo e ciò ha portato al proliferare di versioni alternative di queste piattaforme. Per Google c’è Baidu, Youtube diventa Youku, Twitter Weibo e così via. Il New York Times parla di “una laguna separata dal resto dell’oceano in cui vivono delle creature che sono simili a quelle dell’esterno ma si sono evolute in un ambiente diverso”.

Tuttavia se prima erano i cinesi a ispirarsi alle app occidentali ora stiamo assistendo ad una inversione di tendenza: le app dell’Estremo Oriente sono diventate un modello di successo e innovazione. In particolar modo ad attirare l’attenzione di brand come Facebook e WhatsApp è WeChat, una super-app che conta circa 700 milioni di utenti. Le sue funzioni sono innumerevoli e spaziano dalla messaggistica istantanea, agli acquisti online fino alla prenotazione di ristoranti e toelettatura per animali. Tuttavia non è tanto questa moltitudine di funzioni a rendere questa applicazione per smartphone uno strumento dai superpoteri ma il fatto che siano radunate tutte in una sola app. In questo senso il dispositivo mobile diventa qualcosa di inscindibile dall’applicazione che arriva a raccogliere grandissime quantità di dati riguardo all’utente.

Anche WhatsApp, comprata da Facebook nel 2014, si è mossa in questa direzione: lo scorso 25 agosto sono state annunciate alcune modifiche alle sue condizioni contrattuali e alla sua politica sulla privacy. I numeri di telefono degli utenti e i dati sul loro ultimo accesso saranno condivisi con Facebook; è possibile disattivare questa opzione scegliendo ‘Don’t share’ ma la scelta è irreversibile. Una mossa che mostra la politica della piattaforma di Zuckerberg, sempre più orientata verso il modello della super-app e dell’unicità dell’identità digitale. Anche David Marcus, capo di Facebook Messenger, definisce WeChat “ispiratore”; l’obiettivo è di trasformare Messenger in una piattaforma su cui fare acquisti.

Ed è stato proprio il sogno di un mondo senza contanti a favorire la diffusione di WeChat in Cina. Grazie alla nomea conquistata (WeChat nasce e si afferma nel 2011 come Wexin per poi cambiare il suo nome l’anno dopo in una prospettiva internazionale) e alla messa a punto di un robusto processo di autentificazione, sono più della metà gli utenti che hanno stabilito un collegamento fra il loro account e una carta di credito. Con WeChat è possibile fare shopping grazie a una fitta rete di attività commerciali e brand, ognuna delle quali possiede un profilo ufficiale sulla app. Sono circa un terzo gli utenti che fanno regolarmente acquisti online direttamente con l’applicazione. Al contrario, per le app occidentali la condivisione da parte degli utenti dei loro dati bancari è proprio uno degli scogli maggiori da vincere.

L’abilità maggiore di WeChat è stata quella di adattarsi e innovarsi al meglio fin dai suoi primi momenti: si è configurata come la risposta all’esigenza dei cinesi di riunire i diversi dispositivi che possedevano in un’unica identità digitale, alla ricerca di semplificazione e ordine nel mondo delle mille notifiche e aggiornamenti e soprattutto si è trasformata adattandosi alle esigenze dei suoi utenti.

La Silicon Valley osserva WeChat da vicino in cerca di ispirazione per sviluppare una super-app occidentale, che controlli i dati di ognuno di noi. Tuttavia se da una parte Facebook e compagni dovrebbero fermare questa rincorsa e capire quali sono effettivamente le esigenze degli utenti, dall’altra questi ultimi dovrebbero interrogarsi sulle conseguenze della diffusione di una app unica. In Cina WeChat è obbligata a condividere tutti i dati dei suoi utenti con il governo cinese; nei nostri paesi ciò non avverrebbe ma dobbiamo chiederci se la concentrazione di questa mole di informazioni nelle mani di pochi è ciò che vogliamo.

Fonti: Internazionale, The Economist, The New York Times, The Guardian

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