Intervista a Filippo Taddei

Docente di economia alla John Hopkins University SAIS di Bologna e Research Fellow del Collegio Carlo Alberto, dal 2013 Filippo Taddei è il responsabile economico del Partito Democratico. Con lui abbiamo analizzato la Legge di Stabilità 2017, da poco presentata dal Governo.

Pensioni, tasse, imprese, fisco, le misure contenute nella Legge di Stabilità sono molte. Ci aiuta ad individuare il filo conduttore della legge e, con esso, l’indirizzo di politica economica del Governo? L’ex Premier Mario Monti ha usato parole dure contro questa manovra…

Più che dalle opinioni è sempre meglio partire dai fatti. I fatti, per quel che riguarda la legge di bilancio, sono innanzi tutto i numeri e la consistenza degli interventi. Questa è una manovra che sposta poco meno di 27 miliardi: circa sedici miliardi servono per scongiurare l’aumento dell’IVA; due miliardi costituiscono l’intervento sulle pensioni; quattro miliardi sono in generale dedicati agli interventi di sostegno agli investimenti privati – dal super ammortamento al sostegno a ricerca e sviluppo; circa due miliardi vanno agli investimenti pubblici e un miliardo per il sostegno alla occupazione giovanile, meridionale e studio universitario. Infine, poco meno di mezzo miliardo è stanziato per l’intervento fiscale a sostegno delle partite IVA. Questa panoramica serve per sottolineare come necessariamente la manovra contenga una molteplicità di interventi. Non potrebbe essere diversamente però, al netto del fatto che non abbiamo permesso che l’eredità del passato porti ad un aumento delle tasse – cioè che scatti un aumento dell’IVA –, i due interventi più importanti sono, nell’ordine, il sostegno agli investimenti e il capitolo pensioni. Ora, caratterizzare tutto questo come marchette è secondo me piuttosto inspiegabile, soprattutto da parte di chi si è confrontato con la difficoltà del governare il nostro Paese.

Restando proprio sul capitolo pensioni, sette miliardi, in tre anni, sono dedicati a questo settore: quattordicesima e Ape social tra le misure più significative. Come spiega un intervento così importante in questo campo, a prima vista antitetico rispetto al faro dell’equità generazionale e all’urgenza di rilanciare la produttività?

C’è una terza misura egualmente significativa che rientra nel pacchetto e che infatti pesa praticamente un terzo sulla spesa dell’anno prossimo e degli anni successivi: la ricongiunzione gratuita dei contributi sociali alle diverse gestioni INPS. Questa misura è importante perché ha proprio un tratto distintivo di equità intergenerazionale che va incontro alle esigenze di quei lavoratori che, avendo carriere discontinue, versano o hanno versato i loro contributi all’interno di gestioni diverse dell’INPS. Oggi, ricongiungere questi versamenti per far risultare ai fini dell’accesso alla pensione tutti gli anni di lavoro effettivamente svolti era oneroso. Non è quindi vero che abbiamo speso tutte le risorse per i pensionati: con questa misura vediamo in bilancio un intervento sulla pensioni che si occupa di equità intergenerazionale perché parla anche a chi in pensione ci andrà fra vari anni.

Per quanto riguarda invece il sostegno alla crescita della produttività, che è il tratto distintivo della legge di bilancio, dobbiamo pensare alla crescita del Paese alla luce degli avvenimenti passati e capire cosa voglia dire rilanciare la produttività in un momento come questo. Per prima cosa occorre recuperare il deficit di investimenti che si è accumulato negli anni, in particolare dal 2012 al 2014. In percentuale al PIL, gli investimenti sono infatti calati da poco più del 21 al 16 per cento. Nel momento in cui gli investimenti calano di 5 punti del PIL – circa 80 miliardi, all’anno – vuol dire che il sistema produttivo smette di rinnovarsi, o che lo fa molto più lentamente. Il Governo ha deciso di rispondere a questa carenza mettendosi dalla parte di chi vuole riprendere la sfida della trasformazione produttiva, con soldi propri: da qui il sostegno sugli investimenti privati, che sono stati i grandi assenti in quel biennio e che abbiamo visto ritornare, seppure con lentezza, dal 2015 ad oggi.

Contemporaneamente, però, questa iniezione di nuovo capitale ed energia che stiamo favorendo ha senso solo se le imprese hanno la capacità di fare in modo che il capitale umano che utilizza quella nuova tecnologia sia efficace nel gestirlo. In questa logica, è quindi naturale introdurre elementi di flessibilità pensionistica che facilitino il turnover nei posti di lavoro per facilitare l’accesso ai lavoratori più giovani senza scardinare, voglio sottolinearlo, l’impianto della riforma Fornero che ha dato un contributo fondamentale in termini di equità intergenerazionale.
Mi preme quindi ribadire come l’operazione di flessibilità generale attraverso l’anticipo pensionistico (APE) – da quella di mercato a carico del lavoratore fino a quella pagata dallo Stato per alcune specifiche categorie di lavoratori – non è solo uno strumento per sostenere i lavoratori più fragili ma ha anche una valenza industriale perché permette il rinnovamento della forza lavoro, favorendo in ultima analisi l’occupazione giovanile in questa fase di transizione.

Qui però la critica più volte proposta è: avete inserito questa modalità di uscita a pagamento per nascondere sotto questo velo le misure di flessibilità finanziate dallo Stato. E questa modalità a pagamento sarà forse utilizzata da relativamente poche persone.

Questo naturalmente lo vedremo: comunque mi chiedo che male c’è ad offrire un margine di libertà in più a chi quella libertà la esercita con responsabilità, cioè pagandola. Offriamo la più seria delle libertà, quella equa tra generazioni perché sostenibile da un punto di vista attuariale. Se poi le persone decidono di non utilizzare questa opportunità, hai offerto un margine che le persone hanno scelto di non utilizzare. È però probabile che più di qualcuno lo utilizzerà: le persone sono infatti in condizioni anche molto diverse tra loro e l’automatismo introdotto dalla riforma Fornero, benché sia sicuramente utile alla stabilità del sistema, andava a trattare tutti i lavoratori, anche in condizioni molto diverse, in maniera eguale, con effetti redistributivi per nulla equi. Per questo abbiamo introdotto questo meccanismo di flessibilità su base volontaria.

Restiamo ancora per un attimo sul tema dell’equità intergenerazionale. Recenti pubblicazioni hanno dimostrato come la riforma Fornero, innalzando l’età di pensionamento, abbia ridotto le opportunità lavorative per i giovani. Ora, il problema che si pone in questo caso è solo di breve periodo, cioè successivo al repentino cambiamento delle disciplina, e può quindi essere affrontato con le misure di flessibilità che avete messo in campo, oppure c’è un problema di più ampio respiro che vede una diminuzione strutturale dell’occupazione giovanile, e quindi anche della produttività, nel lungo periodo?

Credo che non dobbiamo mai dimenticare quelli che sono i fatti asseverati in economia e nella teoria economica. Dobbiamo cioè allontanare da noi l’idea che esista un numero fisso di posti di lavoro e che quindi se gli anziani rimangono a lavoro più a lungo, allora i posti di lavoro per i giovani inevitabilmente si riducono. Basta guardare ai Paesi che hanno un più alto tasso di occupazione tra gli over-50, per i quali la produttività è inevitabilmente più bassa, per vedere come gli stessi Paesi abbiano anche un tasso di occupazione giovanile più alto. Questo è un fatto. Però queste sono relazioni di lungo periodo. Quello che noi abbiamo osservato, ed è assolutamente comprensibile da un punto di vista economico, è che nel momento in cui fai un repentino aggiustamento delle regole di pensionamento, come la riforma Fornero fece nel 2011, questo riduce la capacità di aggiustamento del sistema, che contrae il margine estensivo, e cioè riduce opportunità per i nuovi lavoratori.

Infatti l’aumento occupazionale principale, non unico ma principale, è osservabile oggi tra gli over-50. In aggiunta all’occupazione degli under 35, il gap occupazionale più importante da recuperare è soprattutto nella fascia di età fra i 35 e i 50 anni. Questo dato suggerisce che probabilmente in una condizione di ristrettezza economica, la ridotta capacità di pensionamento ha rallentato il naturale ricambio generazione, riducendo gli spazi occupazionali per giovani e adulti. Ma questo è solamente un effetto di breve periodo. La legge di bilancio quindi, oltre ad essere fortemente orientata al futuro con il pacchetto sugli investimenti, interviene anche per gestire, con le misure sulle pensioni, questa difficile transizione occupazionale. In aggiunta, lo fa tutto sommato utilizzando un ammontare abba-stanza limitato di spazio fiscale.

L’ultima domanda sul testo della legge di stabilità riguarda il deficit. In piena espansione monetaria e (seppur flebile) crescita economica, come si giustifica la scelta di prevedere una sua minore riduzione?

Tale scelta, che fa comunque in modo che il nostro deficit venga mantenuto in continua riduzione rispetto agli anni passati, è dettata dalla necessità di continuare a sostenere questa fase di ripresa moderata. Non dobbiamo infatti commettere l’errore di trattare momenti unici come momenti ordinari: di fronte ad un calo degli investimenti e dell’occupazione senza precedenti e solo in parte recuperati, o ci rassegniamo all’idea che l’attuale sia il nuovo equilibrio dell’economia italiana, e che quindi non ci sia bisogno di politiche espansive, oppure riconosciamo che questa è una fase di trasformazione strutturale che va sostenuta attivamente, seppur con grande cautela fiscale come stiamo facendo.

Il percorso della legge di stabilità si intreccia fatalmente con la campagna referendaria. Come possono essere individuati, e quindi quantificati, gli effetti economici delle riforme?

Un punto politico in premessa: utilizzare il voto del 4 dicembre come sondaggio sulla politica economica del Governo o sulla politica del Governo in generale vuol dire sprecare un importante momento di democrazia. Se decidi di sprecare questo momento per altri fini, l’unico risultato sarà stato quello di aver ridotto lo spazio della democrazia.

Venendo alla domanda, dal mio punto di vista, il vero contributo economico della Riforma costituzionale sta nel cambiamento della riforma del 2001, quella del TITOLO V, la cui architrave è l’articolo 117, cioè il modo con cui sono suddivise le competenze legislative fra Stato e Regioni. Questo intervento non ha nulla a che fare con la Costituzione del ’48. La riforma del 2001 cambiò infatti notevolmente il rapporto fra i cittadini e la Pubblica Amministrazione. L’idea di fondo era quella di trasferire buona parte della competenza legislativa alle Regioni, con lo scopo di avvicinare la politica alle esigenze cittadini. Il problema è che tutto ciò è stato fatto in maniera molto inefficace, prevedendo una serie di materie di competenza concorrente, alcune delle quali sono francamente assurde. La follia più percepibile, e forse marginale, è quella che riguarda la promozione del turismo e che permette alle singole Regioni – quando non province – di partecipare a fiere internazionali del turismo in modo autonomo, con accanto giganti come la Cina. Gli aspetti negativi più importanti sono altri, però: pensiamo all’energia. Oggi, infatti, un piano nazionale di razionalizzazione al fine di ridurre i costi dell’energia elettrica che non permetta alle Regioni di frammentarlo sarebbe incostituzionale. La Carta vigente, quella del 2001, prevede infatti che “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia” siano competenza concorrente; qualsiasi Regione potrebbe quindi intervenire sul piano, andando a frammentarne il disegno generale. Lo stesso discorso vale per un ipotetico piano per la razionalizzazione delle infrastrutture, da quelle aeroportuali a quelle portuali. Sempre per lo stesso motivo.

Ma l’attuale Costituzione fa anche peggio sulle politiche sociali e le politiche attive di sostegno per la ricerca di un lavoro. Oggi, le politiche attive del lavoro sono una competenza esclusiva delle Regioni e ciò porta a distorsioni incredibili. Succede per esempio che lavoratori di provincie confinanti in Regioni diverse non conoscano le rispettive opportunità di lavoro e/o formazione: vivi nel nord della provincia di Modena e non sai cosa c’è a Mantova. Altri esempi assurdi riguardano la certificazione di competenze che valgono solo in alcune Regioni e non in altre: essere abilitato a fare il carrellista in Emilia Romagna, per esempio, non ti consente di fare lo stesso mestiere in Lombardia. Oggi, se un Governo volesse uniformare gli standard di formazione per alcune mansioni o dare un sostegno generale e nazionale alla ricerca di lavoro, come abbiamo fatto con l’assegno di ricollocazione nel jobs act, troverebbe un ostacolo nella Costituzione vigente. Anche facendo passare il piano per la Conferenza Stato-Regioni, ciascuna Regione potrebbe destrutturarlo rivendicando la propria peculiarità.
Con la Riforma Costituzionale chiariamo le competenze: attribuiamo allo Stato quello che ha senso stia a livello nazionale per il buon governo dei servizi ai cittadini e dell’economia, lasciamo alle Regioni la competenza su come declinare i piani nazionali secondo le esigenze territoriali. È una divisione del lavoro che risolve le ambiguità e valorizza il ruolo di Stato e Regioni: concentra la programmazione al livello statale e potenzia l’amministrazione al livello regionale.

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