A pochi giorni dalla Conferenza di Parigi: perché è importante parlare di ambiente

Sei anni dopo la fallimentare Copenaghen, lunedì si apre a Parigi la Conferenza internazionale sul clima. Nella capitale danese il vertice si concluse sostanzialmente con un nulla di fatto; ai Paesi sottosviluppati non restò che l’arma del veto per far sentire la loro flebile voce e un accordo separato non vincolante fu firmato da solo cinque nazioni: Stati Uniti, Brasile, Sudafrica, India e Cina.

Questa volta però l’inizio farebbe sperare in qualcosa di più promettente: in ottobre a Bonn si sono gettate le basi per Parigi e tra i punti cardine risultano esserci degli impegni volti alla riduzione delle emissioni, ma soprattutto un nuovo atteggiamento di disponibilità da parte dei Paesi più sviluppati ad aiutare quelli più poveri. Secondo Deutsche Welle, si parla di una promessa di aumentare fino a 90 miliardi di euro all’anno entro il 2020 gli aiuti. Inoltre ogni nazione partecipante è stata incaricata di redigere un piano, che sarà la base per la discussione, ma ciò che promette meglio è, finalmente, la volontà da parte di Stati Uniti e Cina di impegnarsi, anche e soprattutto perché questi due Paesi rappresentano i maggiori inquinatori; in particolare, la Cina è responsabile di quasi il 30% delle emissioni di gas serra e a Pechino il livello di sostanze inquinanti nell’aria è 15 volte superiore al massimo sopportabile dell’organismo umano secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Sembrerebbe dunque che il prossimo vertice sarà pervaso da un clima di impegno e responsabilità. Tuttavia, il giudizio dei rappresentanti dell’ONU e della comunità scientifica è tutt’altro che rassicurante. Gli obiettivi che i Paesi hanno intenzione di porsi non sono abbastanza, anche nel migliore dei casi. È un miraggio quello di raggiungere la riduzione di due gradi del riscaldamento della Terra stando a quanto afferma il Programma ONU per l’ambiente. Inoltre, il GIEC (Gruppo di Esperti Intergovernativi sul Clima) ha dichiarato che anche se venissero mantenuti tutti gli impegni avremo consumato entro quindici anni il 72-75% del budget di carbonio spendibile dall’umanità. La situazione è decisamente preoccupante, ma pochi sembrano rendersene conto. In realtà, i governi sono a conoscenza di tutto questo e di cosa bisognerebbe fare, o almeno tentare, per cambiare; tuttavia non agiscono. Interessi politici ed economici non permettono loro di sbilanciarsi. Verrebbero infatti prese misure contrastanti: da una parte l’invito a consumare e far muovere l’economia, dall’altra quello di limitare i consumi. Ciò è impossibile in un background in cui le esperienze di green economy sono esigue e soprattutto poco stimolate.

Rispetto a Copenaghen comunque sono stati fatti passi da gigante, ma questo non è abbastanza. Da diversi studi è risultato come i cambiamenti climatici conducano a danni notevoli in molti ambiti; fra i primi quello economico, in cui la responsabilità spesso non è solo delle catastrofi naturali stesse, ma anche del modo scorretto di gestione del territorio. E’ il caso degli uragani negli Stati Uniti; un rapporto pubblicato su Nature Geoscience ha stimato che i costi dei danni provocati dall’intensificazione di questa catastrofe naturale a causa dei cambiamenti climatici, si siano aggirati tra i due e 14 miliardi di dollari nel 2005. E questo ultimo aspetto potrebbe far muovere i governi, interessati a ridurre spese di questo tipo. I cambiamenti climatici conducono anche alla accentuazione del divario fra Paesi più e meno sottosviluppati, portando alla povertà di moltissime persone. Oltre a danneggiare il settore agricolo si arriverebbe ad un caldo estremo ed è risultato evidente come temperatura e produttività vadano di pari passo. Uno studio pubblicato su Nature, ha individuato 13 gradi come temperatura ottimale per l’attività economica e ha affermato come l’aumento della temperatura porterebbe ad un calo del reddito globale di più del 20%. In questo senso, Paesi freddi come quelli Scandinavi risulterebbero avvantaggiati a differenza di altri come l’India, in cui le temperature raggiungerebbero valori intollerabili. Un rapporto della Banca Mondiale parla addirittura di 100 milioni di persone che rischierebbero la povertà estrema se entro quindici anni l’obiettivo meno due gradi non venisse raggiunto. Dovremmo dunque gestire nuove migrazioni di rifugiati climatici.

I Paesi sviluppati non si devono quindi sentire immuni da questa situazione e un atteggiamento come quello della Nuova Zelanda, intransigente nel desistere da una politica disinteressata alla tutela dell’ambiente, è da condannare. E’ un problema dell’umanità e ognuno come essere umano deve sentirsi parte. Vertici internazionali come quello di Parigi dovrebbero essere lo stimolo per dibattiti e proposte dal basso. Ognuno di noi può contribuire, non dobbiamo sentirci in balia degli avvenimenti internazionali.

Parigi rappresenta il banco di prova. La tutela del pianeta è forse l’unica cosa che ci accomuna veramente. Affermare i valori di cooperazione e bene comune in una città che da poco è stata teatro di tragici avvenimenti potrebbe dare segni di speranza. Abbiamo reso il pianeta a nostra immagine, ma ora che è necessario adattarsi e cambiare perché non usare quelle stesse armi che ci hanno condotto a questo, la tecnologia e la scienza? Terenzio scriveva: ‘Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo’; e cosa c’è di più umano di chi ci ha generato?

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