La piramide rovesciata

La piramide demografica è uno strumento statistico che consente di rappresentare graficamente una popolazione suddivisa per classe d’età, generalmente distinguendo tra maschi e femmine. Sull’asse verticale si trovano le classi di età, mentre sull’asse orizzontale la numerosità della popolazione della corrispondente classe di età. La forma del grafico fornisce una rappresentazione intuitiva del trend demografico di una popolazione: una forma piramidale indica una popolazione mediamente giovane e in larga parte in età attiva, mentre una forma che somiglia a una piramide rovesciata, ovvero una prevalenza di individui over 65, è indice di un paese in declino demografico.

In Italia, negli anni ’70 la base della piramide era ampia perché si sono verificate numerose nascite durante ilbaby boom degli anni ’60. Il vertice era invece molto stretto in quanto coloro che raggiungevano le età più avanzate erano pochi. Progressivamente la base della piramide si è andata restringendo per via della riduzione delle nascite, mentre il vertice si è allargato perché è aumentata l’aspettativa di vita (gli anziani vivono più a lungo). Oggi la forma del grafico ricorda un rombo per via della elevata numerosità della popolazione di età compresa tra 40 e 50 anni (i baby boomers hanno raggiunto l’età adulta). Secondo le previsioni elaborate dall’Istat, nel 2030 circa, il grafico assumerà una forma simile a quella di un rettangolo per la tendenza all’invecchiamento della popolazione. Nel 2061 la popolazione sarà di poco inferiore a quella odierna, ma gli over 65 risulteranno più numerosi della popolazione più giovane. Il grafico assumerà, dunque, la temuta forma della piramide rovesciata.piramide rovesciata

 

Secondo Eurostat, nel 2060 nell’UE a 27 151,5 milioni di persone avranno più di 65 anni contro gli 84,6 milioni odierni, ovvero la loro quota passerà dal 17,1% al 30,0% della popolazione complessiva. Mentre nel 2008 il rapporto tra la fascia di popolazione in età da lavoro e persone over 65 anni era di 4:1, nel 2060 salirà a 2:1. Come dimostrano le previsioni Istat contenuti nel documento del 2011 Il futuro demografico del Paese, in Italia questa tendenza emerge con particolare evidenza. La popolazione è destinata ad invecchiare gradualmente: entro i prossimi trenta anni il numero di ultra 65enni, attualmente pari al 20,3% del totale, supereranno il 32% nel 2043, per poi stabilizzarsi intorno al 33% nel 2056. La popolazione in età lavorativa (15-64 anni) subirà, nel medio termine, una lieve riduzione, passando dall’attuale 65,7% al 62,8% nel 2026. Nel lungo termine, invece, si prevede una contrazione più marcata fino a toccare un valore del 54,7% nel 2065. L’indice di dipendenza degli anziani (cioè il rapporto tra la popolazione over 65 e la popolazione in età attiva), oggi pari al 30,9%, crescerà fino a raggiungere il 59,7% nel 2065.

Nel 2013, la tendenza all’invecchiamento della popolazione italiana è stata controbilanciata proprio dalla crescita consistente dalla componente immigrata, mediamente molto più giovane di quella italiana: la quota popolazione residente di cittadinanza italiana nell’intervallo di età 14-65 è del 50,8% e la quota di over 65 è del 22,6%, mentre la popolazione straniera presenta una composizione assai diversa: 77,8% fra i 14 e i 65 anni ed appena il 2,7% sopra i 65.

piramide rovesciata2

Sulla base dell’andamento atteso del saldo migratorio con l’estero e dato un tasso di fecondità delle donne straniere superiore a quello delle donne di cittadinanza italiana, si prevede che l’ammontare della popolazione residente straniera possa aumentare considerevolmente: da 4,6 milioni nel 2011 a 14,1 milioni nel 2065. Quindi, nel periodo 2011-2065 l’incidenza della popolazione straniera sul totale passerà dall’attuale 7,5% a valori compresi tra il 22% e il 24% nel 2065.

Secondo Eurostat, nei prossimi anni la crescita della popolazione in età da lavoro dipenderà quasi esclusivamente dalla popolazione straniera, e, in secondo luogo, i lavoratori immigrati costituiranno sempre di più un fattore essenziale per far fronte ad una domanda di welfare sempre più ampia. In Italia gli immigrati non sono, come comunemente si ritiene, beneficiari netti dei programmi di welfare ma ne sono contributori netti: secondo i calcoli dell’Ocse, includendo nel calcolo le pensioni, il saldo è positivo per lo 0,9% del Pil, cioè nell’aggregato gli immigrati contribuiscono alla spesa sociale più di quanto ne traggano beneficio. A beneficiarne è soprattutto il sistema pensionistico: coloro che scelgono l’Italia quale paese dove migrare sono soprattutto giovani lavoratori che vanno ad ampliare la platea di coloro che versano i contributi (la base della piramide demografica) rendendo meno intensa la dinamica di tendenziale invecchiamento della popolazione residente, dinamica che mina le sostenibilità della previdenza. Una popolazione composta da una quota rilevante di soggetti inattivi a carico della popolazione in età da lavoro, pone il nostro sistema previdenziale di fronte ad un bivio: o aumenta la produttività della classe in età da lavoro, ossia la sua capacità di sostenere la fascia di popolazione a carico, o questa stessa classe deve essere ampliata attraverso uno dei seguenti due strumenti o una combinazione di essi:

  1. un incremento della quota di immigrati sul totale della popolazione residente

  2. un innalzamento dell’età pensionabile, ovvero un aumento dell’anzianità lavorativa necessaria per avere accesso alle prestazioni previdenziali

Data la dinamica stagnante della produttività del lavoro dello scorso decennio, per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale italiano è giocoforza puntare sulle altre due variabili.

Da queste brevi osservazioni è già possibile trovare una giustificazione delle policy adottate in Italia nel corso degli ultimi, ossia gli interventi per incrementare la partecipazione degli immigrati e delle donne al mercato del lavoro e, soprattutto, l’innalzamento dell’età pensionabile (vedi riforma delle pensioni del governo Monti). Tuttavia, un flusso netto positivo di immigrati contribuirà ad attenuare l’invecchiamento, ma non impedirà comunque l’aumento della quota di over 65. Inoltre, una quota elevata di lavoratori immigrati comporta un vantaggio per la sostenibilità del sistema pensionistico solo se questi percepiscono redditi paragonabili a quelli del resto della popolazione e in particolar modo se essi dichiarano redditi tali da creare un flusso consistente e continuativo di versamenti contributivi. Già oggi il contributo degli immigrati alla forza lavoro è molto rilevante: nel 2013 gli occupati stranieri rappresentano l’11,2 per cento del totale, il tasso di occupazione degli stranieri nella fascia 20-64 anni è del 61,9% contro il 59,5 % di quello degli italiani, e anche il tasso di inattività della popolazione straniera risulta più contenuto di quello degli italiani (29,7 contro 37,3 per cento). Tuttavia, come rivela il Quarto rapporto annuale “Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia” elaborato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, l’effetto positivo degli immigrati sulla sostenibilità del sistema previdenziale risulta limitato per due ragioni principalmente:

  1. un elevato tasso di partecipazione al lavoro nero.

  2. un’occupazione che si concentra in impieghi scarsamente qualificati: il lavoro manuale non qualificato e le mansioni cosiddette di “cura” costituiscono le principali professioni affidate alla forza lavoro straniera.

Di fronte all’intensità dei fenomeni di immigrazione clandestina via mare che proseguono da alcuni anni a questa parte ed alle palesi difficoltà nell’adottare politiche per gestire tali flussi, in Italia, ma non solo, il rischio è che l’immigrazione, regolare o meno, venga percepita come un fardello che siamo indotti a sostenere, anche se ne faremmo volentieri a meno, perché ci consideriamo e abbiamo la reputazione di essere un paese civile ed accogliente. La realtà che emerge dai dati è, tuttavia, un’altra: nel lungo periodo l’immigrazione non costituirà affatto un inutile fardello, ma una risorsa indispensabile per sostenere la crescita economica e rendere sostenibile il nostro stato sociale, al quale non vogliamo (e non dobbiamo) rinunciare.

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