Uno dei temi attualmente più discussi in Italia è sicuramente quello del mercato del lavoro. Ciononostante, riguardo la componente principale del Jobs Act – il contratto a tutele crescenti – rimane ancora molta confusione. Non è raro, assistendo ad uno dei tanti talk show televisivi, sentire affermazioni diametralmente opposte su questo tema. È quindi opportuno fare un po’ di chiarezza.
E’ innanzitutto essenziale sottolineare come la riforma non abbia effetti retroattivi. Essa, infatti, coinvolge solo i nuovi lavoratori, mentre per tutti coloro che hanno già un normale contratto a tempo indeterminato, la situazione giuridica non cambia. Parlando per estremi: sia nullafacenti che stakanovisti potranno continuare ad oziare o lavorare sodo senza rischiare alcun licenziamento.
Ciò che cambia è per i tanti disoccupati e precari che a fatica trovano l’agognato posto fisso. Ma come?
- Il nuovo contratto a tempo indeterminato non sarà più regolato dall’articolo 18, sostituito da un più flessibile sistema di garanzie, crescenti in relazione all’anzianità di servizio.
- Il licenziamento per motivi economici sarà disciplinato da un indennizzo monetario, equivalente a 2 mesi per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24. Tale indennizzo potrà poi essere raddoppiato in caso di rinuncia alla diatriba legale.
- Il reintegro resterà soltanto per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari.
La domanda a questo punto è: perchè l’introduzione di un più flessibile contratto a tutele crescenti dovrebbe stimolare l’occupazione? Le imprese difficilmente vogliono investire in un mercato fermo e con scarse opportunità di profitto come quello italiano, il cosiddetto rischio di mercato per fare investimenti è troppo elevato. Proprio in questo contesto si inserisce il Jobs Act, con lo scopo di ridurre tale rischio alle imprese. Esse divengono così più libere di tentare nuovi “esperimenti” di mercato, operazioni che altrimenti non avrebbero ragione d’essere perchè troppo rischiose per l’azienda e, conseguentemente, per i propri dipendenti.
Parallelamente al contratto unico, la Legge di stabilità approvata a fine 2014 ha introdotto notevoli sgravi fiscali alle imprese che effettueranno assunzioni a tempo indeterminato. Tali sgravi, della durata di 3 anni, potranno anche raggiungere la cifra di 24 mila euro per lavoratore.
Ad oggi sono 76.000 le aziende che in un mese hanno fatto richiesta alle decontribuzioni per procedere con assunzioni a tempo indeterminato. Non sappiamo se fra 3 anni, con la fine degli sgravi, tali assunzioni verranno confermate. Ciò che è certo è che se tali operazioni avranno esito positivo (ed in tal senso un aumento della fiducia dei consumatori e una ripresa dei consumi interni sarebbero decisivi) vi sarà tutta la convenienza per gli imprenditori a confermare i nuovi lavoratori inseriti in azienda, sfruttando anche utili economie d’apprendimento che aumentano la produttività.
Una delle critiche più affermate nei confronti del Jobs Act è che starebbe portando, insieme ad una diminuzione della disoccupazione, ad una mercificazione del lavoro, con un mondo di lavoratori-schiavi sottopagati. Sorvolando la retorica anti imprenditoriale che sottende il discorso, a livello prettamente macroeconomico, una riduzione del tasso di disoccupazione porta ad un aumento del potere contrattuale dei lavoratori e quindi ad un aumento dei salari. Per i meno accorti, esattamente il contrario.
I principali detrattori della legge hanno proposto differenti alternative di riforma del mercato del lavoro. Alternative che nella maggioranza dei casi puntano nella direzione esattamente opposta rispetto a quella intrapresa. Per quanto istintivamente percepibili come sacrosante e giuste, sono riforme economiche che possono avere notevoli effetti collaterali non desiderati. Prendiamo ad esempio il salario minimo, che prevede un livello salariale fissato dallo Stato al di sotto del quale le imprese non possono assumere. Questo, molto semplicemente, porta le imprese a non assumere tutti quei lavoratori il cui salario di mercato è inferiore al salario minimo, o peggio, ad assumere in nero. Si ottiene quindi, nonostante le iniziali buone intenzioni, un risultato che penalizza proprio quegli individui che si volevano proteggere. Metafora perfetta della manovra è quella di una scala a pioli, alla quale vengono improvvisamente tolti i primi due gradini. L’esito sarà che gli individui più bassi non riusciranno più a salire sulla scala, cioè a trovare un lavoro. Ciò ovviamente non significa che non si debbano fare legislazioni di tutela, al contrario, ma con saggezza, perchè i diritti sono sacrosanti, ma di diritti si può anche morire.
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