Troppo spesso si è parlato di immigrazione come fuga dalla miseria, dalla guerra, dalla povertà. Si è guardato agli immigrati come disperati, poveracci, come a chi non ha nulla da perdere. Troppo poco, invece, si è parlato di percorsi di vita, di ambizione professionale – sì, di ambizione professionale -, di progetti famigliari, di conquista di diritti. È nuova la sfida, oggi, di riconoscere l’immigrato come una personalità a tutto tondo, e la migrazione come un atto di libertà. E’ arrivato il momento di lasciare da parte gli stereotipi che hanno irrispettosamente uniformato l’immagine dello straniero. Bisogna, ora, chiedersi il perché di tanti aggettivi sostantivati: clandestino, extracomunitario, per non parlare delle tante nazionalità che ormai suonano come parole sgradevoli. Marocchino, romeno, albanese, sembrano, ormai, quasi insulti.
È necessario abbandonare i pregiudizi così come il buonismo. Perché, se dire che “gli stranieri rubano il lavoro agli italiani” è grave, affermare che “gli immigrati sono una risorsa perché fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare” lo è ancora di più. E’ vero: gli stranieri, in Italia, sono impiegati per gran parte nella manodopera meno qualificata e nell’assistenza alle famiglie. Peccato, tuttavia, che molti di questi siano “sovra-qualificati”, cioè possiedono un titolo di studio ben superiore a quello richiesto dal lavoro che svolgono. Non solo: la situazione spesso non migliora dopo anni di esperienza e di permanenza in Italia. Ed essendo il permesso di soggiorno vincolato al lavoro e al benessere economico, la precarietà dell’immigrato, in Italia, è esistenziale.
Il nuovo obiettivo deve essere conoscere, comprendere e valorizzare una ricchezza oggi nascosta dal muro dell’emarginazione: è la pluralità di culture, saperi, tradizioni, ideologie, storie di vita, che dimentichiamo di avere nel nostro territorio. Che cosa hanno imparato, gli italiani, da questa multiculturalità? Il tema è ancora più stringente quando tutta questa pluralità si trova nel luogo dove si costruisce il futuro: i banchi di scuola. Quanto stiamo sfruttando la diversità nelle aule per costruire percorsi di sensibilità, di tolleranza e di apertura verso il mondo? Quanto pensiamo ai ragazzi della seconda generazione come una risorsa per il Paese, come un ponte verso nuove realtà, come un’opportunità per tutti i ragazzi di conoscere paradigmi e codici diversi?
Se l’accoglienza della cosiddetta immigrazione d’emergenza, quella che vediamo arrivare sulle coste di Lampedusa, rimane una sfida importante – nonché troppo spesso tragica -, non bisogna tuttavia dimenticare chi nel territorio è presente già da intere generazioni, ma è allo stesso modo discriminato. La battaglia dello ius soli non è soltanto una questione burocratica: si tratta di costruire una nuova società, di scrivere una storia di inclusione. Dobbiamo preoccuparci, se i figli di immigrati hanno spesso voti molto alti, ma scelgono, in media, rispetto ai compagni italiani, un percorso educativo più breve e professionalizzante. Perché non stiamo valorizzando il merito e i talenti che abbiamo, e perché, così, l’emarginazione tocca anche a chi non ha vissuto affatto l’esperienza migratoria.
Chi non viene valorizzato, all’interno della società, sono anche le donne. Le barriere si rafforzano, infatti, – non soltanto quelle linguistiche – quando la donna vive tra le mura della propria abitazione, o al massimo tra quelle della casa dov’è impiegata come collaboratrice domestica o assistente familiare. Molte donne si sono trovate, in questo modo, bloccate in un settore lavorativo poco qualificato e scarsamente remunerato, nonché socialmente poco riconosciuto. Essere sia donne che straniere, in Italia, significa vivere in una condizione di doppio svantaggio e godere di scarsissima mobilità sociale ed occupazionale.
Ma la partecipazione degli immigrati nella vita della società non passa soltanto attraverso il lavoro. Per parlare davvero di inclusione, ma anche di dignità, si dovrebbe finalmente riconoscere agli stranieri residenti l’esercizio del diritto di voto amministrativo. È solo così che l’immigrato può avere un ruolo definito nella vita pubblica, rivendicare in prima persona i propri diritti-poteri e non vivere nella periferia della società. Sono passati 250 anni da quando fu pronunciato il principio “No taxation without representation”, ma la sua applicazione è tutta un’altra storia.
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